SENTINELLA

Sentinellaa cura di Ruggero Zanin

Polonia, inverno 1943-44

La notte fuori era gelida, ma la sentinella della torre aveva comunque aperto una finestra, per guardare meglio, e non attraverso i vetri appannati, la campagna bianca di neve che si stendeva a perdita d’occhio, sotto un cielo nero traforato da un’infinità di stelle.

Il freddo pungente gli diede una scossa, lo svegliò dal torpore del sonno che stava impossessandosi di lui.

In una notte così, a casa, lui e i suoi amici si sarebbero radunati a guardare le stelle, aiutati da una bottiglia di grappa, per parlare di belle ragazze e di futuro.

Chissà dov’erano, in quel momento, i suoi amici. Lui era stato fortunato; gli era toccato un servizio operativo, ma lontano dal fronte e dalle sue immediate retrovie, dove, in ogni momento, ti può capitare di saltare in aria su una bomba messa dai partigiani comunisti. Banditi!

Si era ritrovato in un posto tranquillo, anche se una notte su tre gli toccava fare la sentinella. Ma adesso poteva starsene lì a guardare le stelle.

Come diceva il professore a scuola? Provò a imitarne la voce bassa e profonda, una voce familiare che aveva potuto ascoltare sino a non molti mesi prima: “Due cose riempiono l’anima di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti…: il cielo stellato sopra di me e… Accidenti, non mi ricordo; cos’era la seconda cosa?”

Trasalì quando a un tratto risuonò lungo il fischio del treno. Imprecò sottovoce, mentre chiudeva la finestra e si apprestava ad accendere le potenti fotoelettriche.

Quella era l’unica vera seccatura! I lunghi treni che scaricavano ogni volta centinaia di esseri macilenti, ebrei o zingari. In un attimo l’intero spazio si riempiva di ordini urlati, rabbiosi; di latrati di cani pronti ad azzannare chi usciva dai ranghi. Ma la cosa più rivoltante era quando si aprivano i portelloni: il puzzo di quegli esseri arrivava sin sulla torre, ad Auschwitz-Birkenau, anche in una gelida notte d’inverno. Era un lezzo ancora più disgustoso di quello che usciva dal camino del crematorio giù in fondo al campo.

Chiuse gli occhi e assaporò per un attimo il gusto buono che gli era rimasto in bocca dell’ultima aria notturna, gelida e pura, respirata prima dell’arrivo di quest’altro carico di morti ancora viventi. Per poco.

“Ecco, sì, ora ricordo: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me.

Heil Hitler”


Ho scritto questo testo con la collaborazione di una classe quinta del Liceo di qualche anno fa. Volevamo tematizzare una questione difficilmente comprensibile nella sua devastante brutalità: com’è possibile che il progetto di sterminio di intere popolazioni possa essere stato immaginato e realizzato all’interno di una nazione, quella tedesca, che ha dato i natali a Immanuel Kant?

Oggi, una possibile risposta viene dalla lettura di un bel libro di Géraldine Schwarz, I senza memoria. Storia di una famiglia europea, che comincia nella seguente maniera:

“Non ero predestinata in modo particolare a interessarmi dei nazisti. I genitori di mio padre non erano stati né dalla parte delle vittime né da quella dei carnefici. Non si erano segnalati per atti di coraggio, ma non avevano neanche peccato per eccesso di zelo. Erano semplicemente Mitläufer, persone «che seguono la corrente», conformisti, gregari. Semplicemente: nel senso che il loro atteggiamento era stato quello della maggioranza del popolo tedesco, un accumulo di piccole cecità e piccole viltà che, messe l’una accanto all’altra, avevano creato le condizioni necessarie al compiersi di uno dei peggiori crimini di Stato organizzati che l’umanità abbia conosciuto. Dopo la disfatta, e per lunghi anni, ai miei nonni come alla maggior parte dei tedeschi mancò il distacco necessario per rendersi conto che senza la partecipazione dei Mitläufer, anche minima a livello individuale, Adolf Hitler non avrebbe potuto commettere crimini di tale portata.”

Géraldine Schwarz mostra anche come non fosse inevitabile ubbidire e subire la barbarie nazista:

“Un episodio, l’unico purtroppo, aveva dimostrato che la popolazione non era impotente quanto volle far credere dopo la guerra. Nel 1941 la contestazione di cittadini e di vescovi cattolici e protestanti tedeschi era riuscita a interrompere il programma di sterminio di disabili fisici e psichici, o ritenuti tali, ordinato da Hitler allo scopo di purgare la razza ariana da quelle «vite senza valore». Mentre l’operazione segreta, denominata «Aktion T4», era al culmine e aveva già causato settantamila morti gassati in centri speciali in Germania e in Austria, Hitler cedette all’indignazione popolare e pose fine al progetto. Il Führer aveva compreso il rischio che correva di fronte alla popolazione mostrandosi troppo esplicitamente crudele. Questo, d’altronde, è anche uno dei motivi per cui il Terzo Reich profuse un’energia insensata nella logistica estremamente complessa e costosa del trasporto degli ebrei d’Europa e dell’Unione Sovietica per sterminarli lontano dagli occhi dei loro compatrioti, in isolati campi polacchi.”

Updated: 28 Maggio 2021 — 12:15