di Laura Berlinghieri 5G
Bando a retorica e a nostalgia facilmente vendibile, la musica in Italia sta davvero facendo una brutta fine con una proposta giovanile che, anche a causa di un mercato cieco che privilegia motivetti banali e dal facile ascolto, si dimostra di una sterilità inaudita. E’ proprio vero: l’unica arte ancora in grado di deliziarci viene sempre dalla “vecchia guardia”.
Tolo Marton, unico italiano vincitore del prestigioso “Jimi Hendrix Electric Guitar Festival”, un disco, nel ’75, con le Orme e un tentativo, purtroppo fallito, di reunion nel 2010 con il nome “Tagliapietra, Pagliuca, Marton”. Un chitarrista vero, di quelli che non ti stancheresti mai di ascoltare.
Un concerto così, “alla vecchia maniera”: una birra, tanti amici e un uomo con la barba, un paio di jeans, una camicia a quadri e una chitarra. Inizia a suonare con un trio (composto, oltre che da Marton alla chitarra, alla voce e, talvolta, all’armonica, da Walter Dal Farra al basso e Andrea De Marchi alla batteria): una ballad e poi vero rock ‘n roll, di quello rimtato, di quello che proprio quel piede non ce la fa a non tenere il ritmo.
Alla fine del concerto chiedo a Tolo quali pedali ha utilizzato e lui mi risponde se in una recensione proprio degli effetti devo parlare.
Una risposta che mi ha spiazzato. Caro Tolo, le rispondo qua, lei è un chitarrista eccezionale, con grande tecnica e precisione e con un tocco inconfondibile, ma ciò che più apprezzo di lei è il suo suono: attraverso questa recensione volevo proprio criticare tutti quei chitarristi che nascondono goffamente incapacità e preparazioni lacunose dietro a una miriade di effetti, ora tanto in voga: fasulli emulatori di bravura che non fanno altro che abbruttire il suono della chitarra, snaturarlo e, quindi, avvilirlo e che di certo non sopperiscono a competenze mediocri e approssimative. Lei è ben altro, Tolo, una chitarra vera: la musica espressa in tutta la sua fisicità, violenza e, perché no, irriverenza.
Per inciso, Marton non è comunque un alieno assoluto e i suoi cinque pedalini li aveva pure lui.
Il concerto procede con i suoi pezzi, classiconi del rock internazionale e alcune tra le canzoni più famose dei Deep Purple, gruppo molto caro a Tolo, che ha più volte condiviso il palco con Ian Paice e Don Airey. All'”ardua impresa” contribuiscono Aldo Casai e Simone Bistaffa, rispettivamente nelle vesti di cantante e organista. Il concerto, una vera e propria maratona, si articola in due parti, che condividono quasi interamente il repertorio dei Deep Purple. Da ricordare una breve e inaspettata “Love me two times”, come intermezzo di “Black night”, “Purple Haze”, del “divino” Hendrix, e, a mio gusto, un’indimenticabile “Highway star”.
Tolo sul palco si diverte e diverte, con lui scompare quel velo di sudditanza del pubblico stimolato e alimentato da molti suoi colleghi, meno meritevoli, ma che si prendono troppo sul serio. Alla fine accenna pure “Oh sole mio”, con una Fender improvvisatasi mandolino, e cerca di convincere Aldo Casai a cantare “Hey Joe”.
Insomma, Tolo, lei è un chitarrista vero, lo è sempre stato. Lei è una certezza.