di Carlotta, Giulia e Maria Antonia 3C classico
Due giornate di sole, due sabati pomeriggio e due passeggiate per Venezia fino alla Giudecca. Bella la prima considerazione (il sole), bella l’ultima (per quanto sia stato troppo breve il tragitto a piedi), forse un po’ faticosa la terza, che significa uscire da scuola e rinunciare ad una bella porzione del sabato, giorno di respiro, di riposo, di amici e tempo per sé ricavato a fatica fra la gabbia già risolta e quella presto incombente degli impegni scolastici. Motivo dell’uscita: incontrare scrittori che parlano dei loro libri (ancora? Ce ne sono ovunque, scrittori che parlano di libri. Bieca promozione, business, noia). Luogo dell’incontro? Ecco il punto. La casa circondariale femminile della Giudecca. Lettrici e ‘chairwomen’ degli incontri, le donne recluse nel carcere.
Lo spunto ci è venuto da una mail della nostra Dirigente che ci ha messo in contatto con l’Associazione Closer la cui responsabile, Giulia Ribaudo, è venuta a parlare alla nostra assemblea d’istituto. Fra le tante iniziative, a noi piaceva l’Interrogatorio alla scrittura.
Quindi, il 9 novembre siamo andati a conoscere le donne ristrette. A parlare, due di loro e la scrittrice Ginevra Lamberti, Il pozzo vale più del tempo.
Carlotta
Anche a mente lucida mi risulta difficile tradurre a parole le impressioni che l’intervista in carcere alla scrittrice G. Lamberti mi ha lasciato. Tre aspetti mi hanno colpito più del resto: in primo luogo, lo sguardo delle detenute e alcuni loro interventi inaspettati, come quello di Giulia: “Spesso a tradirti sono le persone del tuo stesso sangue”. Questa frase concisa, netta, seguita da un silenzio agghiacciante, mi ha fatto sobbalzare il cuore; tante domande mi sono sorte. Ad aver prodotto in me la stessa sensazione è il passo del libro (Il pozzo vale più del tempo) che è stato scelto per essere letto: un passo molto crudo, di violenza, di sangue. Mi sono chiesta se tale lettura fosse necessaria e soprattutto perché fosse stata scelta. Da ultimo, sono rimasta sorpresa dal fatto che la responsabile dell’associazione non si sia astenuta dall’esprimere la sua perplessità nei confronti della nuova direzione dell’istituto, che sembrerebbe creare situazioni di difficoltà alimentando disagio e incomprensioni.
Giulia
Ho trovato importante l’incontro soprattutto sotto il profilo umano, per aver avuto l’opportunità di entrare in carcere e vedere quella realtà di solito a noi invisibile e sconosciuta: mi è arrivata molto forte la sofferenza di quelle donne, la solitudine si vedeva nei loro occhi, spenti e in cerca di ascolto. La possibilità di varcare le soglie di un mondo recluso, di osservare da vicino le vite sospese e le emozioni trattenute fa riflettere: al di là delle storie individuali e delle ragioni della detenzione, emerge una comune umanità, una sofferenza condivisa che l’incontro letterario ha saputo portare in superficie.
L’incontro è stato molto interessante anche perché è stato condotto in prima persona dalle detenute, che hanno rivolto una serie di domande alla Lamberti, domande se vogliamo rivelatrici della loro sofferenza e che ci hanno abbastanza sorpreso, a volte anche turbato; come per esempio la sezione davvero violenta del libro che Giulia ha deciso di leggere come conclusione del pomeriggio.
In particolare l’esperienza ha suscitato alcuni spunti su cui riflettere quali il guardare oltre le sbarre e il riconoscere il lato umano in ogni individuo, indipendentemente dalle sue azioni passate, il potere della letteratura di costruire ponti tra mondi apparentemente distanti. Ciò che ha forse colpito è stata anche la “normalità” che traspariva in alcuni momenti dell’incontro, la curiosità per un libro, il desiderio di porre domande ad un’autrice, la condivisione di impressioni, contrapposta al contesto, le sbarre, le guardie; in un luogo di reclusione, dove le regole e le dinamiche sono inevitabilmente diverse, questi scambi hanno rappresentato un piccolo spiraglio di quotidianità.
Iniziative come quelle portate avanti dall’associazione Closer si rivelano preziose nel fare da collegamento tra il dentro e il fuori del carcere, un modo per mantenere vivo il contatto con il mondo esterno.
E poi siamo tornati il 28 febbraio, attirati dalla presenza annunciata dello scrittore Jonathan Bazzi con il libro Febbre. Noi un gruppo più piccolo, ma sempre motivato. Da che cosa? Curiosità per le procedure burocratiche per entrare in carcere? Voglia di gita in vaporetto? Desiderio di conoscere uno scrittore arrivato alla finale del premio Strega? Tutto questo: ma anche per lo spazio in cui si viene accolti (la sala dei colloqui con i famigliari, dipinta di bianco e lilla a decori), ma ancor di più per le donne che avevamo conosciuto, i loro sguardi potenti, la loro bellezza di incroci di popoli nei tratti del volto e nelle loro voci, il mistero nero dei delitti (a noi sconosciuti) che hanno compiuto, la forza delle loro personalità che traspare dalle pose, dai gesti, un’energia trattenuta non scevra da violenza, eros negativo e amore del male. Bello anche osservare altri ‘esterni’: una classe di un istituto di Schio, volontari, operatori, persone anche anziane che credono alla solidarietà e che dedicano del tempo agli altri.
Ma… varcata la soglia del carcere veniamo a sapere che Bazzi non ci potrà essere (eh, no, non è giusto!). Il perché lo leggeremo il giorno dopo sui giornali (ma il motivo è giusto?). Quindi?: le donne non parlano del libro, ma di loro stesse e delle loro storie, pur senza toccare mai il cuore del problema, cioè il motivo per cui la giustizia ha deciso che devono essere recluse. Parlano dei problemi organizzativi, della vita quotidiana del carcere, del rapporto con le poliziotte, della difficoltà di condividere spazi e tempo con chi può non piacerti, degli affetti lontani, dei desideri che coltivano per la loro vita ‘dopo’ (andare a un concerto, farsi una canna, e altro). Alla fine, il secondo incontro ci è piaciuto più del primo.
Maria
«Ragazzi, torniamo in carcere?» È stata questa la domanda che ho rivolto ai miei amici e compagni di classe quando ho saputo che ci sarebbe stato un secondo incontro alla Casa Circondariale Femminile della Giudecca.
A pensarci bene, non è un’occasione che capita a molti: quella di entrare in carcere, dico, di viverlo per qualche ora e poi uscirne, da persone libere. Non siamo né detenuti né operatori penitenziari, eppure ci è stato concesso di varcare quel confine. Il carcere è un luogo chiuso, limitato da muri spessi e sbarre metalliche, sorvegliato da guardie con grossi mazzi di chiavi che aprono porte con un clangore metallico. È un luogo pensato per isolare. (O forse no? O meglio: forse non solo?)
Alla fine, in carcere ci sono tornata ma senza convincere i miei amici. Ho superato i controlli di sicurezza, depositato il telefono e oltrepassato quelle porte blindate che le guardie mi hanno richiuso rumorosamente alle spalle. Mi sono seduta nella sala colloqui insieme ad altre persone: altri ospiti. Lì ci aspettavano alcune persone: alcune detenute. E poi abbiamo aspettato insieme per un po’, in silenzio. In carcere, dove c’è poco da guardare, affini l’udito. E noti un’assenza quasi surreale di suoni e soprattutto di parole. Nessuna detenuta parlava con un’altra.
«Che silenzio assordante!» ha detto un’insegnante tra noi ospiti. «In fondo, è positivo… per noi che veniamo dalla confusione del Carnevale!» «Dici?» le ha risposto Giulia, una detenuta. «Io invece sento sempre rumore. Qui in carcere non c’è mai pace. Non hai mai un attimo per te, un posto dove stare tranquilla.» Quelle parole mi hanno colpita profondamente. Il carcere isola dal mondo esterno, ma all’interno priva della possibilità di isolarsi in senso positivo, di quella sicurezza e tranquillità che oggi chiamiamo privacy. Ed è proprio questa mancanza che rischia di diventare disumanizzante. O forse, semplicemente, disumana.
All’inizio le parole mancavano: l’assenza dell’autore aveva scombussolato i piani. Parlare di un libro fornisce dei binari sicuri per una conversazione pacata e controllata (e soprattutto approvata dalla Direttrice). Ma senza quel riferimento, come si fa?
Le ragazze si sono trovate in una condizione a cui non sono abituate: la libertà. Libertà di parlare, di avere un “colloquio straordinario” con persone esterne alla famiglia e al personale penitenziario; la libertà di scegliere l’argomento della conversazione e non dover per forza parlare del libro che molte magari hanno letto solo per ingannare il tempo. Ci hanno chiesto come fosse “lì fuori” e hanno riso quando hanno saputo del Carnevale. Lentamente anche noi abbiamo trovato le parole per domandare come fosse “lì dentro”. E loro, felici di poter raccontare, hanno risposto (quasi) a tutto. Ho imparato molte cose: cos’è una “domandina”, chi è la “spesina”, com’è la “scuola” che frequentano, quanto sia importante per alcune il “lavoro” e come riescano a conoscere “l’amore” nonostante tutto.
Non è andato tutto liscio però. Più di una volta i toni si sono accesi, soprattutto parlando di politica o dei disagi interni al carcere. In quei momenti è stata Giulia Ribaudo a riportare l’ordine nella conversazione; più di una donna ha parlato con sofferenza della mancanza dei figli e familiari; una si è commossa raccontando di come ha scoperto della morte del padre, rimasto in Brasile, soltanto giorni dopo, attraverso una costosa e quindi brevissima videochiamata su Microsoft Teams con la figlia.
Se volessimo usare delle etichette, quasi tutte queste ragazze prima che detenute sono tossicodipendenti, povere e disadattate. Una ragazza dal marcato accento lombardo ha raccontato di aver vissuto a stretto contatto con l’HIV e che per questo inizialmente si era rifiutata di leggere il libro scelto per l’incontro, che affrontava proprio il tema della malattia autoimmune. Alla fine però lo ha letto e ha deciso di partecipare.
Il libro lo sto leggendo anche io. Non l’ho comprato: me lo ha regalato Giulia, la detenuta. Devo dire che non è un granché. Ma è molto di più il gesto. È molto notare i segni in matita, rileggere le pagine che ha cerchiato e arrovellarsi cercando di capire cosa l’avesse colpita o quale situazione avesse rivisto. Dopo aver letto le prime pagine le ho sfogliate e annusate con foga. Odorano tutte delle sigarette che le mani nervose di quella ragazza si accendono durante l’ora d’aria.
Per capire:
- https://www.associazionecloser.org/;
- https://www.associazionecloser.org/portfolio/ias-interrogatorio-alla-scrittura/;
- Ginevra Lamberti, Il pozzo vale più del tempo, https://www.marsilioeditori.it/lista-autori/schedaautore/5520/ginevra-lamberti;
- Jonathan Bazzi, Febbre, https://www.fandangolibri.it/prodotto/febbre;
Il perché dell’assenza: (https://www.corriere.it/sette/25_marzo_01/jonathan-bazzi-evito-di-uscire-dicasa-da-mesi-ordino-la-spesa-faccio-yoga-online-uso-lo-smartphone-10-ore-al-giorno-non-sonodf43a3b5-89a2-4761-afb3-60fb850bdxlk.shtml).