Campo lungo

Mauthausen e gli occhi d’una bambina

 di Irene Garofalo 5G

mautha5Forse alcuni genitori non la ritengono cosa corretta, ma mio padre non riuscì a tenermi all’oscuro dei mali del mondo per molto tempo. Mi parlò della Shoah quando avevo soltanto sette, massimo otto, anni. non potevo capire, ma, del resto, nemmeno lui. L’orrore non è semplice da spiegare, e da spiegarsi. Proprio per questo diventai parecchio sensibile al riguardo. Francesco, questo il nome di mio padre, fa l’insegnante, ed, ai tempi, organizzava viaggi “della memoria” in Austria, Germania o Polonia, che includevano una visita ad un campo di concentramento. Quando avevo nove anni, decise di portarmi con sé, in Austria, a visitare il campo di Mauthausen Guse, a 20 chilometri da Linz. 

Il campo era ancora dotato di molte delle strutture originali, quali baracche, forni crematori e camere a gas. Stetti quasi sempre in silenzio. Chi ha visitato un campo di sterminio ha ben presente quanto sia pesante l’aria che vi si respira. La mia mente di bambina immaginava tutti i fantasmi dei detenuti, tornati a guardare i visitatori, e si sentiva quasi in colpa per aver protestato, la sera prima,  sul fatto che a cena ci fosse sempre e comunque zuppa di verdure. 

Chiusa nel mio silenzio, osservai ogni particolare: le venature del legno sulle pareti delle baracche, il ferro battuto sui forni crematori, le crepe nei muri, i sassolini sul monumento, le mattonelle nelle camere a gas, e gli oblò sulle porte. “Papà, a cosa servono, gli oblò?”, chiesi. Lui fece silenzio per qualche minuto, e poi rispose: “Controllavano. Controllavano che fossero tutti morti.” Non raccontava storie, Francesco. Mi scandalizzava che si potesse controllare che tutti fossero morti, ancora di più che si potesse pensare di uccidere persone a manciate. Mi scandalizzava il meccanismo secondo il quale tutti gli ebrei, e non solo, andavano sterminati, tutti: uomini, donne, anziani, bambini, tutti, senza che io potessi spiegarmi perché.

Ovviamente, il campo era anche dotato di un museo. Ricordo che osservai attentamente le foto, cercando di trovare, nei visi delle persone, un qualcosa che potesse renderle diverse, distanti, da me. Quello che volevo, era spiegarmi da dove poteva provenire un odio così grande da motivare l’intenzione di distruggere così tante vite.

Poi passammo agli oggetti che erano appartenuti a coloro che avevano lasciato la vita dentro quel cancello. C’era di tutto: occhiali, scarpe, collanine, berretti, giocattoli. Giocattoli d’ogni sorta: bambole di pezza, di legno, macchinine di latta, piccoli trenini. Di sicuro le bambine avevano raccontato qualche storia alle loro bambole, ed i bambini avevano spinto con le dita le macchinine, per farle correre, così come facevo io. Ricordo che additai uno fra i tanti giocattoli, perché somigliava a qualcosa che avevo anche io. Erano come me, tutti quei bambini.

Una bimba non si capacita dell’orrore.

Gli alunni che seguivano papà in questi viaggi avevano, al tempo, l’età che ho io ora. Nemmeno una diciottenne si capacita dell’orrore. Nessuno di noi potrà mai, realmente, spiegarsi perché quel legno è andato a formare baracche, perché quelle mattonelle hanno pavimentato camere a gas, perché in quei forni non è stato cotto del pane, perché bisognava controllare che fossero tutti morti, perché in quei volti non c’è nulla che li differenzi dai nostri, se non i segni della denutrizione, e perché quei giocattoli non si trovano in qualche soffitta, a far da cimeli, invece che in un museo.

Oggi è il 27 gennaio, ed è il Giorno della Memoria. Queste domande non trovano risposte né oggi, né mai. Oggi ricordiamo l’orrore perché se ne parla. Ma Mauthausen e i suoi fantasmi sono sempre lì.

Forse la visita al campo di sterminio (la prima di tre, in totale), a soli nove anni, fu scioccante: ma ha fatto sì che io, ogni giorno, pensi almeno una volta, anche solo per sbaglio, ai giocattoli perduti nelle teche, che erano così simili ai miei.