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L’EMANCIPAZIONE FEMMINILE ATTRAVERSO LA VERITÀ

di Pietro Ferrazzi, IV A Scientifico

L’emancipazione femminile avviene certo attraverso la libertà di scelta che la donna, o meglio, le donne, devono imprescindibilmente avere e poter esercitare. Tuttavia, la libertà è un concetto ed un modus vivendi complesso, e complicato da collettivizzare: il presidente statunitense Donald Trump ha reinserito il bando per cessare i finanziamenti alle ONG che si occupano di aborto, perché il suo elettorato lo richiede. Non è il primo a farlo e non sarà l’ultimo. E, da un punto di vista meramente politico, è legittimo che sia così: se la democrazia è il sistema che vogliamo, dobbiamo purtroppo essere pronti a subire ed accettare i “colpi di mano” della maggioranza.

Dal punto di vista sociale, la questione è più ampia: si è scelto di intaccare quello che, nell’autoreferenziale “moderno” way of thinking, è ambito di amministrazione femminile. Perché mai un uomo dovrebbe occuparsene? A me pare che, per difendere un iper-femminismo, si finisca per voler isolare la donna, esautorando da ogni responsabilità che, volenti o nolenti, il maschio ha nei confronti della compagna e del figlio.

Ma, io credo, anche tale ottica è limitante: ritengo che questo sia un discorso epistemologico e linguistico, prima che politico e sociale. Mi spiego. Alla domanda, retorica per la verità, “è possibile che nell’epoca moderna il corpo della donna non venga in tutti i casi considerato di sua stessa appartenenza?” io risponderei sì, se essa fosse sensata.

Direi di sì perché è vero che non le appartiene: noi possiamo, attraverso la tecnica, prolungare la vita per un certo periodo, interromperla in fieri, addirittura congelarla, ma mai scegliere di dare il via alla nostra. Nessun uomo può, né ritengo che mai potrà, decidere se nascere o meno: ognuno di noi si ritrova, dal giorno del suo concepimento, con un’esistenza da sopportare. E allora a me sembra che un’affermazione del genere si basi su una presunzione pericolosa, la stessa che sostiene il peso della verbalmente violenta “proprietà sui figli”, delineata attraverso la scelta di porre in antitesi il modello ideale attuale a quello della donna antica, “considerata un oggetto, funzionale alla continuazione della specie […]. Alla donna non apparteneva nulla, né il patrimonio, né i figli, nemmeno quindi il suo corpo.”. Certo, questo linguaggio è dettato dalla buona intenzione di giustificare razionalmente la libertà femminile, ma non basta avere obiettivi giusti: bisogna pure che i fondamenti sui quali sono posti siano veri.

D’altro canto, il quesito in analisi, che rappresenta il fulcro dell’articolo intorno al quale mi prefiggo di esprimermi, è inconcludente se collegato alla conclusione alla quale vorrebbe giungere: se anche l’uomo in genere avesse il “il diritto di decidere liberamente sul proprio corpo” in ogni aspetto, bisognerebbe attribuirgli in aggiunta il diritto di decidere liberamente sulla vita, anzi, sulla morte, di un’altra persona, che è il figlio. E questo, nell’ottica di dimostrazione per assurdo, sarebbe una contraddizione: il figlio, persona, verrebbe privato del diritto che si vuole attribuire alla madre.

A partire da questa considerazione generale, ogni caso particolare ha la sua unicità e non spetta a nessuno di noi giudicare sulle infinite declinazioni possibili; d’altro lato, non possiamo neppure sospendere scetticamente il giudizio come qualcuno propone, anche a costo di apparire impopolari. Se la verità esiste, è una soltanto, e nel dibattito bisogna che funga da lume.

Chiaramente anche la mia è un’idea tra le altre su un argomento molto dibattuto, tuttavia ritengo che chi volesse dirsi contrario alla base intorno al quale è costruita sarebbe particolarmente coraggioso e, per molti aspetti, eccessivamente antropocentrica, ingannando in un certo senso se stesso. Volentieri riceverei risposte.

La bocca della verità