di Marco Visentin, II C Classico
Stando ai dati di ClasseViva, ho svolto circa 121 ore di alternanza scuola-lavoro, cui se ne aggiungeranno all’incirca 54 di studio assistito. Totale: 175 ore. Risultato mediocre, però: c’è chi ha già terminato le 200 ore obbligatorie, principalmente grazie a stage linguistici, al progetto “Move 2.0” o ad attività sportive. Per che cosa? Per nulla.
Tralasciamo per un attimo il mio (fosco) giudizio sulla questione – l’istinto mi dice che nessuna di quelle ore mi garantirà l’accesso al Bengodi – e consideriamo i decreti delegati sfornati in materia dal Consiglio dei Ministri di venerdì 7 aprile: in sostanza, si è deciso che il nuovo Esame di Stato debutterà dal 2019, lasciando noi “ragazzi del ‘99” con un esame vecchio e un’alternanza tutta nuova. Siamo ibridi, un tentativo semi-abortito di mutazione.
I veri ragazzi del ’99 ebbero un poco invidiabile primato: furono i più giovani a essere trucidati in una guerra inutile, che costò all’intero Paese dolore e denari; i giovani del 1999, invece, hanno un nuovo primato, meno grave ma comunque poco invidiabile: sono i primi a lasciarsi docilmente sfruttare, e in più non ne ottengono nulla. Assolutamente nulla. Più che un primato, è una posizione unica, dato che i nati nel 2000 potranno almeno spendere le esperienze o competenze o chissacché acquisite per conquistarsi la promozione all’esame.
Se ci fosse una porta a segnare il passaggio dal vecchio al nuovo, noi ci saremmo incastrati in mezzo, con un piede da una parte – un passato, se non sempre positivo, almeno sicuro – e l’altro dall’altra – un futuro che, potenzialmente positivo, è stato progressivamente incenerito, almeno per quanto riguarda alternanza scuola-lavoro ed Esame di Stato.
Qualcuno magari avrà il coraggio di sogghignare: “Non avete punto compreso lo spirito dell’attività, che mira a garantirvi una formazione a 360°, riempiendo quelle lacune che un approccio rigidamente gnoseo-pratico comporta con un’inversione di prospettiva, un approccio pratto-gnosico”. In metafora, prima si insegnava il funzionamento di un motore, per guidare; ora, si suppone che guidando, per osmosi, la nostra fantasia disegni tanti bei pistoni e ingranaggi al punto da ricostruire la teoria.
Il problema è questo, no? “La nostra è una scuola troppo teorica”, quanti l’hanno detto? “Bisogna ritrovare il contatto con la realtà”, altrimenti si rischia di “vivere in un altro pianeta”. Su, su, diciamocelo: a che serve imparare la storia? è solo teoria… E la filosofia? inutili domande… Il ragionamento suona pressappoco così: per camminare servono i piedi, non gli occhi, quindi perché allenare la vista?
Io rivendico che un’istruzione liceale debba mantenersi rigidamente teorica, e che la pratica debba essere un’aggiunta, non una sostituzione ai veri contenuti. E se qualcuno dirà che le competenze debbono prevaricare le conoscenze, e che sono le prime a dare una vera formazione, risponderò così: da Tucidide ho appreso il valore della storia, e che essa deve essere tramandata; Cicerone mi ha insegnato l’impegno per la collettività e il giusto spirito nell’attendere una carica pubblica; Virgilio ha saputo commuovermi e indurmi in malinconiche riflessioni; Pindaro ha ispirato in me la nostalgia per il passato; Pericle, il più grande di tutti, mi ha fatto democratico.
E ancora, Platone mi ha insegnato a riflettere; Carneade ha incrinato le mie convinzioni; Plotino le ha riconfermate. Agostino ha toccato il mio animo; Giordano Bruno l’ha infiammato; Cartesio l’ha ricondotto alla ragione; Pascal mi ha fatto rialzare gli occhi. Se sono quel che sono, è perché le conoscenze e la quotidianità mi hanno forgiato tale: non ne sono certo responsabili le ore al Museo Archeologico di Altino, o quelle presso Europe Direct, o i numerosi corsi sul mercato del lavoro, sulla comunicazione e sulla sicurezza.
Avrò tempo, all’Università, per avvicinarmi a esperienze pratiche compatibili con il mio indirizzo di studi. Prima di allora, voglio essere uno studente, non un simil-lavoratore non pagato.