Dal Franchetti all’ESA, l’Agenzia spaziale europea, passando per gli Stati Uniti: è questa l’incredibile parabola professionale dell’’ingegnere aerospaziale Pietro Baglioni, che ci insegna che ogni sogno, con la giusta dose di determinazione e passione, è davvero possibile.
M.F. «Ti ringraziamo, Pietro, per averci concesso questa intervista: persone che praticano la tua professione non si vedono certo tutti i giorni! Raccontaci quando e come è nata in te la passione per il cosmo e l’idea di diventare ingegnere aerospaziale».
P.B. «La passione per l’ingegneria aerospaziale e per tutto ciò che riguarda lo spazio si è rafforzata negli anni dell’adolescenza: già dal liceo ero appassionato di aeroplani, in parte anche di ingegneria aeronautica e in generale del cosmo. Inizialmente all’università mi ero iscritto a ingegneria meccanica perché a Padova ancora non esisteva ingegneria aerospaziale, ma poi, nel frattempo, è stato introdotto anche questo indirizzo che è lo stesso che mi ha portato alla laurea».
M.R. «Che ricordi hai dei tuoi anni al Franchetti»?
P.B. «Ora quando penso al periodo compreso tra i 14 e i 18 anni ho sempre dei ricordi bellissimi. I primi anni sono stati turbolenti perché, a causa della mancanza delle aule, abbiamo studiato in un plesso staccato e anche perché erano gli anni delle contestazioni studentesche. Nonostante questo, ho legato molto con i miei compagni di classe con i quali sono ancora in contatto e ho dei bei ricordi dei professori e degli studi, benché da giovane mi lamentassi molto».
M.F. «La cultura umanistica ti ha aiutato (o ti ha ostacolato) nel tuo successivo percorso»?
P.B. «La cultura umanistica non mi ha per niente ostacolato, anzi ha plasmato la mia forma mentis e questo con il passare degli anni mi ha giovato molto. Il fatto che io non abbia intrapreso degli studi scientifici al liceo, però, mi ha portato a essere in difficoltà il primo anno di università perché non ero preparato quanto i ragazzi che avevano studiato allo scientifico.
Io sono molto soddisfatto di aver intrapreso questo tipo di studi: il bagaglio culturale che ho acquisito durante gli anni del liceo è qualcosa che non avrei potuto apprendere dopo. Ancora oggi la storia è un mio hobby: da quando è finito il liceo ho continuato a studiarla e ad appassionarmici».
M.R. «Raccontaci come ti sei inserito nel mondo del lavoro e di cosa ti occupi quotidianamente».
P.B. «Mi sono inserito nel mondo del lavoro più tardi rispetto ai miei coetanei perché, finita l’università, ho svolto il servizio militare, che allora era ancora obbligatorio, come ufficiale perdendo così un anno e mezzo. In seguito mi sono recato negli Stati Uniti per un dottorato di ricerca e in questo modo ho approfondito i miei studi nel settore aerospaziale.
Ho iniziato a lavorare a tutti gli effetti intorno ai ventotto anni prima all’università e poi ho avuto l’occasione di lavorare all’Agenzia Spaziale Europea, grazie alla quale ho partecipato a diverse missioni, per esempio, nel campo della microgravità per la Stazione Spaziale Internazionale.
Lavorare all’Esa è un’esperienza molto appagante che mi ha concesso di conoscere le realtà industriali europee e internazionali. Sono tutto sommato soddisfatto del mio percorso lavorativo».
M.F. «Al momento quali sono gli obiettivi dell’Esa»?
P.B. «L’Esa lavora su tutti i fronti dell’esplorazione del cosmo, dando la possibilità all’industria europea di acquisire competenze nell’ambito dello sviluppo di tecnologie aerospaziali. Al momento sono impegnato nel progetto Exomars che prevede la costruzione di un rover e l’invio su Marte dello stesso. Se il primo passo è stato completato con successo, il drastico mutamento delle relazioni internazionali seguito allo scoppio della guerra in Ucraina ha impedito il completamento della missione. Questa, infatti, era concepita come una partnership tra Esa, Nasa e Roscosmos, (l’agenzia spaziale russa, n.d.r.) la quale nella fattispecie avrebbe dovuto fornire il lanciatore e altre attrezzature necessarie.
Il risultato è che il rover nuovo di zecca è ancora parcheggiato qui sulla Terra e non potrà partire prima del 2028, complice anche la ristretta finestra temporale (3-4 settimane ogni due anni) che sulla base dell’allineamento dei pianeti rende possibile il lancio. Si tratta di missioni complesse che dipendono tanto dalle leggi cosmiche quanto dai capricci umani e dalla maggiore o minore cooperazione internazionale».
M.R. «A proposito di cooperazione internazionale, sappiamo che la Nasa manderà l’uomo sulla Luna entro il 2024: l’Esa prenderà parte a questa missione»?
P.B. «Certamente! L’Esa contribuirà a questo progetto, che prende il nome di missione Artemis, in maniera concreta, fornendo elementi della Gateway orbital station, una stazione che orbiterà attorno alla Luna e un lander che porterà uomini e mezzi sulla superficie del nostro satellite. Io non mi occupo specificatamente di questo, tuttavia in quanto membro del Direttorato so con quanta dedizione i miei colleghi stanno lavorando a questo progetto».
M.F. «Quanto si rivela determinante il carattere internazionale dello staff dell’agenzia»?
P.B. «L’internazionalità è sicuramente il nostro pedigree. Sebbene infatti i paesi membri dell’Esa corrispondano grossomodo a quelli dell’UE, vi sono delle considerevoli eccezioni, quali la Gran Bretagna e persino il Canada. Questo carattere rende senza dubbio stimolante l’ambiente lavorativo, ma causa anche dei problemi organizzativi.
La maggior parte dei programmi dell’agenzia sono opzionali: ciò significa che i paesi che di volta in volta aderiscono e contribuiscono economicamente si aspettano che i finanziamenti ritornino loro indietro come contratti industriali. In altre parole, per potere affidare un compito ad una determinata azienda noi dobbiamo assicurarci non solo che abbia le adeguate competenze tecniche ma anche che appartenga esclusivamente ad uno degli stati finanziatori. Si generano quindi ritardi e complicazioni. Un prezzo che tuttavia siamo disposti a pagare nell’ottica di distribuire il lavoro e consentire la crescita tecnologica di tutte le industrie europee, senza distinzioni».
M.R. «Un’ultima domanda: in ambito lavorativo l’Italia sta affrontando il tema del gender gap. All’interno dell’agenzia il problema si presenta? Ci sono donne che lavorano con voi e in che percentuale»?
P.B. «Non mi sbilancerei al punto da affermare che ci sia un 50% di donne nella composizione del nostro entourage ma il cosiddetto gender equality è senza dubbio uno dei driving dell’Esa, qui forse più che altrove si cerca di garantire un’equa distribuzione delle job opportunities. Sapete chi poche ore fa stava camminando lungo questi corridoi, in quanto membro del nostro Direttorato? Samantha Cristoforetti in persona! Ma, al di là del caso più noto e più eclatante, sono moltissime le donne che rivestono ruoli manageriali di altissimo livello.
Dal punto di vista assistenziale, inoltre, vigono le medesime regole per uomini e donne, per esempio nella presenza sia del congedo di maternità sia di quello di paternità a eguali condizioni. L’obiettivo è abbattere qualsiasi ostacolo all’affermazione delle potenzialità dei membri del nostro staff, indipendentemente dal loro sesso o dal loro genere».
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