Il nostro angolo

L’ESODO TRA SPERANZA E DESIDERIO, CONFINI E LIMITI DA SUPERARE: SUGGESTIONI DALLO SPETTACOLO TEATRALE “PASSI”

Martedì 14 febbraio, presso il Teatro del Parco Bissuola di Mestre, è andato in scena  lo spettacolo teatrale “Passi” a opera di Gianmarco Busetto, con l’assistenza tecnica di Marco Duse, prodotto dalla compagnia teatrale Farmacia Zooè nel 2021.

Interpretato da un unico attore, Marco De Rossi, lo spettacolo racconta la vita di Abdon Pamich, atleta e marciatore vincitore delle Olimpiadi di Tokyo nel 1964. Al centro della pièce vi sono la sua carriera sportiva e i ricordi che lo legano alla sua adolescenza da esule, da quando nel 1947 la sua vita è cambiata radicalmente. Con il Trattato di Parigi di quell’anno, infatti, Fiume, provincia italiana, era stata assegnata allo Stato jugoslavo. I cittadini come Pamich,  improvvisamente  stranieri nella loro stessa città, hanno dovuto così scegliere se restare a Fiume, diventando però jugoslavi, oppure emigrare in Italia, vivendo da profughi. Qualunque scelta avrebbe avuto come conseguenza il sentirsi estranei, emarginati, fuori posto. “Restare era coraggio. Partire era coraggio”.

Durante la gara alle Olimpiadi del 1964, Abdon ripensa al periodo in cui era scappato con il fratello Giovanni da Fiume, ai momenti in cui aveva dovuto resistere contro un destino avverso. Nel pieno inverno di Tokyo, con un problema intestinale che avrebbe potuto compromettere la sua prestazione, Abdon si dispera, pensa di aver perso tutto il suo mondo, tutte le opportunità avute per realizzarsi, tuttavia non smette di correre. Ripercorre mentalmente il suo passato: si vede correre, assieme al fratello Giovanni di solo un anno più piccolo, per salvarsi, correre dalla prigionia di  un paese che non era più il loro, correre lungo le rotaie del treno che portavano a Divaccia, per sorpassare il confine senza essere uccisi dai soldati di Tito. Correre via dall’antica patria colma di urla e di pianti. Correre dai  lamenti delle persone scaraventate nell’abisso delle foibe, in fin di vita, legate per i polsi da un filo di ferro. La corsa poi continua nel freddo inverno del Carso: scappati dal mare, in maglietta e pantaloncini, Abdon e Giovanni arrivavano finalmente in Italia. Anche qui la strada è in salita: non hanno nulla, solo un certificato che attesta che sono profughi dell’ex Jugoslavia e hanno diritto a trecento grammi di pane e tre etti di chiodi. Questi ultimi  venivano distribuiti agli esuli perché potessero imballare le casse che contenevano le poche cose da portare via. 

Abdon ritrova proprio nella sua tragica storia la forza per continuare a gareggiare, vincendo la gara della sua vita.

Lo spettacolo incide nei cuori degli spettatori i momenti principali dell’esistenza di questo incredibile atleta, sfruttando il potere evocativo del teatro: per esempio, l’attore, per raccontare delle foibe, fa cadere con un pesante tonfo delle scarpe a terra, sul palcoscenico, rimandando metaforicamente al precipitare dei prigionieri italiani nel profondo delle cavità carsiche. Le stesse scarpe che, nel corso della rappresentazione, erano state simbolo non solo dei profughi, ma anche di speranza: “La speranza è come un paio di scarpe strette”, a volte fa male, a volte è l’unica strada che ci porta alla vita.

La scenografia consiste in pochi elementi essenziali: solo alcune scarpe e  cubi che di tanto in tanto vengono spostati dall’attore per rappresentare le varie fasi della vita del nostro esule, soprattutto i suoi continui spostamenti. Davvero efficace, inoltre, è la scelta di far recitare un solo attore, con l’intento di instaurare un rapporto più stretto con il pubblico, quasi intimo. Oppure ciò è simbolo della solitudine di Pamich? Marco De Rossi ci ha raccontato questa storia con grande trasporto, calandosi perfettamente nel personaggio da interpretare e offrendoci un incredibile saggio di bravura.

Dopo la rappresentazione dello spettacolo, i produttori e l’attore hanno proposto alle classi presenti un’attività: su un foglio bianco si dovevano scrivere i tre oggetti che avremmo ipoteticamente portato via con noi se fossimo stati costretti  a scappare e andare lontano. Questi oggetti avrebbero dovuto rappresentare noi stessi, le nostre vite, i nostri sogni… Ammetto che non è stato affatto facile, ma abbiamo avuto l’opportunità di riflettere su cosa sia davvero indispensabile nella vita; i tre oggetti erano mezzi attraverso cui le altre persone avrebbero potuto riconoscerci. Questi erano i tratti caratteristici e distintivi di ognuno di noi spettatori, ma per i profughi di Fiume non lo erano più: come avrebbero potuto racchiudere in pochi oggetti la loro personalità, la loro identità ormai distrutta?

I titolo dello spettacolo deriva proprio da questi sentimenti: dalla voglia di scappare, di fare quei piccoli o grandi, coraggiosi o meno, lenti o veloci, passi verso la libertà.

Sarebbe giusto prendere d’esempio Abdon Pamich che, oltre ad essere stato un esule e un campione olimpico, è stato soprattutto un ragazzo molto determinato e con un coraggio incredibile. Ci spinge, infatti, a lottare per il nostro futuro, nella speranza di una vita migliore. Oggi molti ragazzi si trovano a vivere le loro battaglie quotidiane, alcuni le affrontano con coraggio e determinazione, altri toccano il fondo e non risalgono più. Anche se difficile, la vera forza, il vero valore di una persona si manifesta proprio in una storia come quella di Abdon e di tanti altri giovani che come lui hanno vissuto le terribili tragedie del Novecento. Questo atleta costituisce un punto di riferimento e d’ispirazione anche oggi, anziano, perché ha ritrovato lo stimolo a diventare testimone, trasmettendo la sua storia alle nuove generazioni. 

La testimonianza, e quindi l’importanza della memoria, è del resto il pilastro su cui si fonda una società più equa, solidale e giusta.

 

ABDON PAMICH OGGI

Abdon, novantenne, in una recente intervista, confessa che la sua gara più dura è stata fuggire dall’Istria; nessuna marcia, nemmeno quelle olimpiche più prestigiose, come la gara di Tokyo nel 1964 e Monaco nel 1972 e altre competizioni a livello internazionale e mondiale, può reggere il confronto.

I suoi ricordi di Fiume sono spensierati e sereni, Fiume stessa era una città di grandi campioni sportivi, fino allo scoppio della guerra e soprattutto all’instaurarsi di un regime fatto di scomparse improvvise e massacri continui. Ci dice di essere tornato a Fiume trent’anni dopo, sentendosi estraneo: “Non è come l’emigrante che quando torna si sente a casa, sembra di essere noi gli stranieri”.

Inizialmente rivedere la casa d’infanzia era doloroso per lui, ma poi ha avuto modo di ritrovare qualche vecchio conoscente e di emozionarsi parlando lo stesso dialetto fiumano di quando era ragazzo.