Il nostro angolo Recensioni

Diceria dell’untore

di Margherita Parisi, V B classico

[n.d.r.: l’articolo risale a quasi un mese fa. E’ stato deciso di procrastinarne la pubblicazione. Oggi lo pubblico perché può suggerire una valida indicazione di lettura. Chi ha letto il romanzo troverà che l’articolo manca, in qualcosa. Lasciamolo mancare. Ne parleremo].

Con questo nuovo articolo voglio parlarvi del romanzo Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, siciliano nato a Comiso il 15 novembre del 1920 e morto a Vittoria il 14 giugno 1996.

Il tema dominante è senz’altro la morte: non però quella che in guerra, correndo tra le trincee, miete vittime senza pietà, né quella di anziani costretti a letto, circondati dai propri cari. È invece una fine che si sente vicina, metabolizzata, accettata ormai dai pazienti della Conca d’oro, malati assolutamente incurabili.

Lo scrittore, fra le righe, ricorda la giustizia nella morte. Sembrerà forse ovvio: moriremo tutti, chi prima, chi dopo, chi per mano propria, chi no. Arriverà un giorno, e nessuno di noi saprà mai quale, in cui la sera ci coricheremo per non svegliarci o ci desteremo per non dormire mai più.

Un dubbio, implicito, attanaglia le menti dei pazienti: è meglio sapere esattamente quanto ci manca a morire, o vivere nell’ignoranza, spensierati? I personaggi del romanzo lo sanno: c’è chi ha davanti non più di un paio di settimane, altri che invece hanno qualche mese ancora, e attendono tutti, pazienti. Si potrebbe dire che il romanzo insegna a godersi la vita, a lasciarsi andare completamente ai propri sentimenti, a ciò che proviamo. Tra questi sentimenti spicca l’amore, nella sua foma più pura e semplice: un amore che non pretende nulla in cambio, che non ha un fine, quasi a dirci che è proprio solo l’amore ciò che può concedere agli altri chi ormai non ha più niente e sta per perdere sé stesso.

Una cosa affascinante in Bufalino è il suo linguaggio. Ricercato e ricco di termini desueti, spezza la lettura e la rende macchinosa, il che, sommato alla pesantezza del tema trattato, non rende il libro molto fruibile; ma il mio amore, forse un po’ maniacale, per le parole mi porta a riflettere. Ho notato che buona parte delle parole che usa Bufalino, in questo ed altri libri, non le avevo mai sentite: sono così poco usate, così particolari che, in cuor mio, so che andranno perse, ed è la loro mancanza già palpabile che rende l’italiano di oggi ciò che vediamo e sentiamo. In noi giovani si nota una certa povertà di vocabolario, sostituita spesso da intercalari a dir nulla improponibili. Forse, paragone azzardato, sono disgustata nella stessa misura in cui un latino del primo secolo lo sarebbe per come sarà poi trattato l’italiano, suo erede prossimo. Inorridirebbe per la perdita di ‘rorido’, ‘peripatetica’ o ‘esecrabile’. L’uomo antico sarebbe forse rassegnato a questo inverno, che si prospetta lungo e tagliente, in cui saranno scordati molti scrittori, troppo complessi da leggere, e con loro molti termini dal suono e dal significato tanto perfetto, dolce e bello; tanto bello che ritengo che, in primavera, quesi termini verranno tirati fuori,   spolverati e riannoverati nel lessico conosciuto e usato.

Io la primavera la sogno, davvero, perché so anche che quel giorno avremo così tante parole che potremo davvero farci la guerra con quelle solo. Anche se questo fosse solo un (miserabile?) sogno.

 

Buona lettura!

Margherita Parisi