Il nostro angolo

PINKWASHING e RAINBOW WASHING: come il marketing si è appropriato degli slogan delle lotte per i diritti

di Camilla Rienzi e Sofia Toso 1ªCL

Le aziende sono al corrente di quanto sia importante per gli acquirenti che i brand prendano pubblicamente posizione rispetto a grandi cause sentite dall’opinione
pubblica, come ad esempio quella ambientalista o femminista o in generale i temi caldi del momento. Proprio in virtù di questo fatto, spesso danno un tocco di verde, di rosa o multicolore sui propri prodotti, agendo così sulla propria visual identity, cioè sulla propria immagine pubblica, in operazioni di marketing mirate a migliorare il loro posizionamento e la loro reputazione

Pinkwashing” è un termine inglese che indica strategie pubblicitarie compiute dalle aziende a favore delle donne, di cui esse si definiscono portavoce. Esso deriva dall’espressione inglese “whitewashing” ovvero imbiancare, pulire + “pink”, rosa, il colore stereotipico del femminile. Come indica l’etimologia della parola, l’azienda si “tinteggia” di rosa e sostiene l’emancipazione femminile in forma apparente e non sostanziale. Questo termine è stato usato per la prima volta da una società per la lotta del cancro al seno per identificare le aziende che fingevano di sostenere le donne malate, guadagnando dalla loro malattia.

Rainbow washing”, invece, è una parola che rappresenta una forma più specifica del pinkwashing, identificando un’attività sociale o di marketing indirizzata a presentare una realtà come LGBTQIA+ friendly allo scopo di aumentarne il consenso presso il pubblico.
Anche in tal caso si tratta di una forma di inclusività e di sostegno del tutto apparente, in quanto solitamente non si vedono le aziende mandare messaggi di supporto alla comunità LGBTQIA+, ad eccezione del mese del Pride. Durante questo mese infatti tutti i marchi più importanti colorano i propri loghi con i colori dell’arcobaleno, dando in questo modo l’illusione di essere aziende attente e vicine alle tematiche della comunità LGBTQIA+. LGBTQ Nation (un giornale online americano) afferma che marchi coinvolti nel rainbow washing sono colpevoli di utilizzare la comunità LGBTQ per aumentare le proprie pubbliche relazioni e ottenere capitali dal ‘denaro rosa’, il tutto mantenendo pratiche di lavoro ingiuste, processi di assunzione discriminatori e sostenendo organizzazioni anti-LGBTQ.

Il caso Victoria’s Secret
Victoria’s Secret è un marchio statunitense di abbigliamento femminile, noto soprattutto per le creazioni di lingerie e prodotti di bellezza , nato a San Francisco nel 1977. Nel 1995 si tenne il primo fashion show del brand all’ Hotel Plaza di New York in cui numerose modelle sfilarono in passerella indossando camicie da notte. Negli anni l’evento acquisì sempre maggior rilevanza: nel 1999 venne trasmesso in diretta streaming durante la pausa del Super Bowl e dal 2001 in poi in diretta televisiva. La sfilata era accompagnata dalle performance musicali di cantanti di fama internazionale quali le Spice Girls, Will.i.am, Kanye West, Jay-Z, Adam Levine dei Maroon 5. Gli Angeli di Victoria’s secret (così erano chiamate le modelle che indossavano grandi ali piumate) incarnavano un unico prototipo di bellezza ideale e irraggiungibile: le modelle erano tutte uguali e magrissime, con lunghi capelli perlopiù biondi e slanciate.
Con il passare degli anni, questo ideale di bellezza assolutamente non inclusivo è
apparso come superato pertanto è stato registrato un forte calo delle vendite. Per
tentare di invertire la rotta, il brand ha improntato la propria immagine nel segno di una maggiore inclusività e nel 2019 è arrivata Ali Tate Cutler, primo Angelo curvy. Molti sostengono però che la nuova modella curvy di Victoria’s Secret, che porta una normale taglia 46, non possa essere considerata una vera “plus-size”.

Il caso Barilla
La celebre azienda Barilla da sempre ha investito in una pubblicità con uno storytelling incentrato sulla famiglia tradizionale e sulla condivisione del cibo. Quando chiesero al proprietario se fosse disponibile a fare una pubblicità con una famiglia gay, l’azienda rifiutò. “Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca”, questa fu la risposta di Guido Barilla nel 2013, senza riflettere sul fatto che potessero esserci dei consumatori non d’accordo con questa sua visione.
Ciò portò ad un calo di reputazione dell’azienda Barilla, mentre altre imprese colsero le sue debolezze creando una nuova tipologia di marketing: dalla pasta di tutti i colori alla pubblicità con coppie dello stesso sesso che condividono i pasti.
Quanto accaduto fece capire all’azienda Barilla quanto fosse importante l’inclusione. Essa dovette quindi assolutamente pensare ad una strategia di recovery, che prevedeva l’inclusione di varie tipologie di famiglie, iniziando dalle collaborazioni con le associazioni gay italiane e statunitensi. Grazie al loro cambiamento attitudinario è diventata l’azienda simbolo dell’impegno gay, tanto che nel 2020 venne addirittura premiata a Vienna con il premio per l’inclusione della comunità LGBTQIA+.