di Sara Lubiato
Lei è una ragazzina di nome Sara ed è nata in un distretto della città di Gyumri, vicino al confine con la Georgia, sull’altopiano armeno, dominato dal massiccio dell’Ararat in terra di Turchia, brullo e spazzato dal gelido vento siberiano. I pochi villaggi sorti in questa regione dell’Armenia hanno un aspetto di abbandono e gli unici abitanti sono donne con i loro bambini, perché con la chiusura delle fabbriche gli uomini sono emigrati in Russia in cerca di lavoro e il più delle volte non sono più tornati.
Non sa in quale ora del giorno è venuta al mondo, né che tempo facesse; non sa se fosse veramente attesa da qualcuno, né se la giovane donna che l’ha partorita l’abbia almeno baciata una volta prima di lasciarla al suo destino. Assegnata ad una culla, la prima di tante e tutte uguali, non ricorda più il viso di chi si è preso cura di lei. Il piccolo lettino è diventato tutto il suo mondo e ben presto anche lei, come gli altri neonati, ha imparato a succhiare da sola il latte dal biberon, che le veniva lasciato sul cuscino, appoggiato alla spalla. Sara ha sempre mangiato poco e sorriso molto e a tutti, forse per attirare l’attenzione e per questo motivo era benvoluta dal personale dell’orfanatrofio, che le regalava sempre un saluto o un bacio sulla fronte. L’ambiente era pulito, ma essenziale, di stile ‘sovietico’ e senza riscaldamento, ragione per cui i neonati venivano fasciati con cura, rendendo impossibile ogni movimento. Il suo primo nome era stato Mariam e in cuor suo la ragazzina ha sempre sperato che chiunque lo avesse scelto per lei, lo avesse fatto con amore.
Al compimento del primo anno di età, le giornate di Sara cambiarono all’improvviso: due sconosciuti, sorridenti e un po’ impacciati, vollero conoscerla e cominciarono a dedicarsi completamente a lei, facendo a gara per tenerla in braccio. Le loro premure tranquillizzarono la bambina, che strinse le loro mani per imparare a muovere i primi passi e poi a correre. Così i due sconosciuti, incontrati per chissà quale distrazione del destino, diventarono i suoi genitori e lei la loro Sara. Da allora è trascorso del tempo e Sara ha compiuto i suoi passi senza voltarsi indietro, custodendo le poche consapevolezze della sua giovane età e tenendo sempre i suoi occhi neri e lieti fissi sul futuro. Spesso, nei lunghi e soleggiati pomeriggi estivi, quando la campagna marchigiana è sonnolenta e silenziosa, Sara si siede all’ombra fresca e amica di un vecchio olmo, in cima alla collina che domina una dolce valle di girasoli dorati, sconosciuta ai ‘foresti‘ e, immobile e attenta all’ascolto, socchiude gli occhi ridenti, per scrutare meglio l’orizzonte e scorgere il nastro azzurro lucente del mare che sfiora la chioma celeste del cielo, mentre un vento caldo e profumato le libera il viso dai capelli e le regala pensieri leggeri. Sara si lascia rapire da una piacevole sensazione di benessere e mentre sorride dolcemente la sua mente vola libera come una rondine sulle distese di grano e sugli ulivi, giù giù fino agli oleandri della spiaggia e alle bianche scogliere del promontorio, con le sue baie color verde smeraldo, che si svelano solo a chi le raggiunge veleggiando dal mare. Sara non sa bene perché, ma si sente felice: in quell’angolo di paradiso, sente semplicemente di appartenere all’antico e sempre nuovo spettacolo della vita, una goccia nella vastità dell’oceano, un granello di sabbia nella fertile terra, un soffio di vento nell’aria. Si diletta a sussurrare i versi dell’Ode al giorno felice, che un giorno la mamma le ha recitato e dedicato: “Questa volta lasciate che sia felice / non è successo nulla a nessuno / non sono da nessuna parte, / succede solo che sono felice / fino all’ultimo profondo angolino del cuore”.
Quando la calura del giorno si fa più sopportabile, la contrada si anima delle voci di bambini che, in sella alle loro biciclette, spesso senza freni né pedali, si lanciano giù per una discesa di terra battuta e sassi, in una gara spericolata che si conclude di sovente in un ruzzolone rovinoso e generale, con escoriazioni dolorose ai gomiti e alle ginocchia, mentre i più piccoli, esclusi dalla competizione, ridono a crepapelle. Poi arrivano puntuali e in fila indiana tre sorelline marocchine, con i capelli lunghi e neri, raccolti in morbide trecce abbellite con nastri rosa e fermagli colorati. Gentili e discrete, si siedono silenziose vicino a Sara, scegliendo le pietre più pulite e comode dove potersi sedere. Dopo aver sistemato con cura il vestitino, la piccola Kadisha divide con Sara la sua merenda, prima di aprire il quaderno del ripasso estivo. Sotto la chioma frondosa dell’olmo secolare, ogni pomeriggio Sara e le sue amiche fanno i compiti, ma soprattutto condividono confidenze, risate e giochi. Verso sera, le campane del vicino convento ricordano ai paesani più volenterosi e devoti il momento della preghiera vespertina: molte donne anziane affrontano con pazienza la salita alberata che conduce alla chiesa, mentre altre si siedono fuori dall’uscio della propria casa con il rosario in mano e il velo ricamato sulla testa.
Sara attende con impazienza questo momento della giornata perché alla piccola compagnia si unisce un biondino dalla figura esile e gli occhi intelligenti, di nome Sergey. Il ragazzo è un appassionato giocatore di scacchi e per lui socializzare parlando di scacchi è importante almeno quanto saper giocare. Per questo motivo, si dilunga a raccontare e a commentare con Sara le partite dei più famosi scacchisti, mentre le raccomanda di prestare attenzione al galateo qualora le capitasse la fortunata circostanza di essere invitata a sedersi al tavolo da gioco di una competizione. Sara ascolta sempre con attenzione e con un vago senso di gratitudine tutti i consigli e i suggerimenti di Sergey, felice e orgogliosa di essere sua amica. C’è chi considera gli scacchi un’arte, chi uno sport o una scienza: a Sara invece piace considerarlo un gioco di calcolo e creatività, il migliore rompicapo che sia mai stato pensato e al quale chiunque può dedicarsi a patto che abbia tempo libero in abbondanza. Anche adesso, nei freschi pomeriggi primaverili, Sara si siede sotto l’olmo e attende Sergey, che però non è più del solito umore: ha lo sguardo triste e i suoi bellissimi occhi sono inquieti e lucidi. Già da qualche giorno, ha confidato a Sara il suo smarrimento: la guerra ignobile e fratricida, che devasta la bella terra del popolo ucraino e massacra i civili, sta travolgendo in un vortice di dolore anche la sua famiglia, emigrata da una cittadina a pochi chilometri da Kiev, dove sono rimasti parenti e amici. Suo padre ha scelto di rientrare in patria per affiancare l’esercito. “Non posso restare qui a guardare mentre la nostra gente piange e soffre! Questi sono crimini di guerra! Peggio, sono crimini contro l’umanità!” ha detto ai suoi figli, coprendosi il volto con le mani per nascondere le lacrime. A Sara tornano in mente le lezioni del professore di storia sul genocidio del popolo armeno, un eccidio che ha ispirato Hitler nella sua lucida e criminale pianificazione dello sterminio degli ebrei. “Abbiamo già rimosso i drammi dell’Afghanistan, le macerie e i lutti della Siria! Perché la guerra è una folle realtà che continua ad accompagnare gli uomini?”, domanda Sergey a Sara, ma lei rimane in silenzio, un po’ confusa, perché non trova le parole giuste per consolarlo, mentre pensa che forse celebrare il ‘Giorno della memoria’ non sarà più sufficiente se nelle nuove generazioni non si faranno germogliare nuovi semi di pace e tolleranza. Sara, Kadisha e Sergey decidono di proteggere il loro seme e in cima alla collina, sotto il loro olmo, si stringono le mani, promettendosi amicizia per sempre. Croce sul cuore.
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