di Marta Rosson
“Il 12 dicembre è un venerdì. Milano è avvolta dall’atmosfera di Natale. I negozi sono pieni, luccicanti e le vetrine sono addobbate. Le signore eleganti escono, appunto, dai grandi magazzini con borse piene di regali. I viali sono punteggiati di luminarie. Fa freddo. La nebbia mista allo smog, entra quasi nelle narici, per le strade si sente il rumore dei tram sulle rotaie e fuori dalle pasticcerie l’aroma, il profumo dei caffè e dei panettoni. È l’Italia del 1969, l’Italia del miracolo economico in cui il Pil cresce del 6,8% all’anno (oggi cresce dello 0,1% quando va bene). Il debito pubblico è pari al 40% del Pil (oggi è il 135%, tre volte tanto). Le principali aziende italiane assorbono lavoratori dal meridione e da altre parti d’Italia. Si costruiscono strade e nuovi quartieri, grattacieli e fabbriche. La Fiat lancia sul mercato uno dei suoi modelli più diffusi la 128, che qualche nonno ha ancora. Dario Fo, in quell’anno, rappresenta per la prima volta un testo che diventerà famoso, si chiama Mistero buffo, lo trovate su Youtube. In testa alla classifica dei dischi più venduti c’è una canzone di Lucio Battisti, si chiama “Un’avventura” ma il festival di Sanremo quell’anno è stato vinto da Bobby Solo e Iva Zanicchi con una canzone che si intitolava Zingara. La Fiorentina vince il suo secondo e per ora ultimo scudetto di serie A.”
Con queste parole il giornalista Daniele Ferrazza descrive l’Italia del 1969, quel mirabolante “paese dei balocchi” nel quale tutto sembrava possibile. Tutto, tranne la tragedia che effettivamente ebbe luogo.
Ma andiamo con ordine. Il 12 dicembre 2023 le classi dell’ultimo anno del nostro liceo hanno preso parte ad un incontro, dal titolo “La Bomba: Racconto Civile.”, tenuto dal giornalista Daniele Ferrazza e da un ex professore, Guido Lorenzon. Guido Lorenzon in persona. Un uomo che, sebbene sconosciuto ai più, ha avuto un ruolo decisivo della storia recente del nostro Paese. A soli ventotto anni con grande coraggio testimoniò nel processo della Strage di Piazza Fontana, una tragedia in cui morirono diciassette persone, ottantotto riportarono danni fisici permanenti e che sconvolse un’intera nazione. Proprio questo era lo scopo degli attentatori: l’azione terroristica si inquadrava nella cosiddetta “strategia della tensione”, ovvero l’uso di mezzi violenti da parte di gruppi di estrema destra coadiuvati da servizi segreti deviati, esponenti politici e dell’esercito corrotti e soprattutto dall’Internazionale terroristica nera. Queste azioni facevano parte di un più ampio progetto di distruzione della democrazia a livello mondiale e di trasformazione dei governi in senso autoritario.
In Italia, dopo una serie di governi di centrodestra che avevano fallito clamorosamente, seguirono dei governi di centrosinistra che, sulla scia del Sessantotto, approvarono alcune riforme, tra cui la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola. Fu in questa atmosfera politica che i terroristi meditarono e realizzarono l’attentato. La bomba fu posizionata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, che si trovava appunto in Piazza Fontana, sotto il grande tavolo centrale. Quel giorno la sala era gremita di clienti, soprattutto provenienti dalla periferia, tra cui una giovane accompagnata da un bimbo che sarebbe divenuto la vittima più giovane. Alle 16.37 del 12 dicembre 1969 l’ordigno, contenente sette chili di tritolo, esplose. Una seconda bomba fu rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in Piazza della Scala. Una terza bomba esplose a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collegava l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio; altre due esplosero a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti a Roma furono in tutto sedici.
Le indagini, guidate dal questore di Milano Marcello Guida e da Federico Umberto D’Amato, vice direttore degli Affari riservati, furono sin da subito indirizzate volontariamente verso quella che fu definita la “pista anarchica”. Due esponenti di questo movimento, Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda, furono arrestati. Il primo, chiamato in questura, si dice commise un sospetto suicido, considerato prova della sua colpevolezza. Il secondo venne riconosciuto colpevole, non solo dalla giustizia ma anche dall’opinione pubblica (lo stesso Bruno Vespa realizzò un servizio in cui dichiarava la colpevolezza degli anarchici, del quale in seguito si sarebbe scusato). In poco tempo magistrati e forze dell’ordine conniventi erano quasi riusciti a chiudere il caso come desideravano. Finché non avvenne un fatto inaspettato, un’improvvisa falla nel depistaggio: la testimonianza di Guido Lorenzon.
Guido Lorenzon era un professore di provincia, di soli ventotto anni. Il 15 dicembre, mentre era in classe con i suoi alunni della scuola media di Arcade (TV) seguì dalla televisione i funerali delle vittime di Piazza Fontana. La cerimonia scosse fortemente l’opinione pubblica: le immagini in biano e nero ci mostrano centomila persone accalcate in Piazza Duomo in un’atmosfera pesante come il piombo. Di quel giorno Sandro Pertini avrebbe detto che “era mezzogiorno ma sembrava mezzanotte”. Dopo quel funerale e dopo un colloquio con un prete di fiducia Lorenzon non ha dubbi: ha il dovere di confessare i propri sospetti.
I sospetti riguardavano un suo amico, Giovanni Ventura di Castelfranco Veneto. Appassionato di storia e filosofia, libraio della Galleria del Libraio. Aveva delle “idee particolari” ogni tanto faceva “discorsi strani” con frasi come “La democrazia è un errore”. “Ma sempre mezze parole”, ci ha raccontato il professor Lorenzon. Anche se un giorno gli ha mostrato un deposito di armi e un altro, mentre erano in auto, il timer di un ordigno. Così, in seguito all’attentato del 12 dicembre, Guido non ebbe più dubbi.
Si affidò la stessa sera del 15 dicembre all’avvocato Alberto Steccannella e fu convocato dal sostituto procuratore di Treviso Pietro Calogero, che per primo intuì la veridicità e l’importanza delle sue dichiarazioni e aprì un fascicolo su Ventura. Intanto però l’indagine principale, l’unica resa nota all’opinione pubblica, quella della “pista anarchica”, da Milano si radicò nella procura di Roma, dove sarebbe stato più facile boicottare tutte le indagini, comprese quelle trevigiane. E ciò avvenne. Quando infatti Calogero decise di registrare le conversazioni tra Lorenzon e Ventura l’operazione fallì varie volte e sempre per motivazioni differenti. Una fu persino manomessa affinché le dichiarazioni di Ventura paressero pronunciate da Lorenzon. Alla fine il sostituto procuratore decise di difendere il professore e di ascoltare una sua ulteriore registrazione con Ventura all’hotel Plaza di Mestre in cuffia, rimanendo nascosto in una piccola auto parcheggiata lì davanti. Proprio come nei film chi cerca di difendere la verità non viene compreso e corre dei rischi enormi, tanto che al professore fu affidata malvolentieri una scorta, di cui tuttavia fu privato nel momento più critico, ovvero quando dovette recarsi a Roma.
Tra il novembre e il dicembre del 1971 arrivò la svolta. A Castelfranco Veneto vennero scoperte delle armi. Ma soprattutto a Montebelluna, in una cassetta di sicurezza della madre di Ventura, venne trovato un documento che provava il coinvolgimento di Ventura e la sua appartenenza al gruppo di estrema destra “Ordine Nuovo”. A partire dal 1974 il processo fu unificato a quello contro Valpreda e trasferito a Catanzaro, lontano dal luogo dell’attentato e dalla capitale, al fine di garantire una maggiore neutralità nello svolgimento delle indagini. Il giudice Giancarlo Stiz firmò i primi mandati di cattura contro i veri responsabili: Ventura, Franco Freda, procuratore di Padova, e il giornalista Guido Giannettini furono condannati all’ergastolo al primo grado di giudizio e Valpreda fu assolto. Ma al secondo e al terzo grado di giudizio vennero assolti dal reato di strage. Le indagini continuarono, le prove si accumularono ma Freda e Ventura vennero infine assolti e fuggirono in America Latina.
Dieci processi, quindici inchieste e decine di imputati sono serviti a poco. Anche se nel 2005 la Cassazione li ha finalmente ritenuti colpevoli, i responsabili per la giustizia italiana sono tuttora liberi cittadini e, se Ventura è deceduto pochi anni fa dopo avere gestito un ristorante a Buenos Aires, Freda è ancora vivo e risiede ad Avellino.
Questi sono i fatti che ci sono stati raccontati dal diretto interessato lo scorso dicembre. Alla semplice narrazione, sono seguiti uno spazio per le domande degli studenti e un ultimo invito del professor Lorenzon a “non dormire”, a non dare per scontata la democrazia in cui viviamo con il suo sistema di diritti e doveri ed a lottare ogni giorno per renderla migliore.
“La bomba: Racconto civile” è il titolo dell’incontro con il quale il giornalista e il testimone d’eccezione si prodigano per raccontare questa torbida vicenda alle giovani generazioni e per squarciare il velo di bugie che ancora pesantemente la ricopre. Quindici anni fa è stata effettuato un sondaggio tra alcuni giovani italiani, ai quali è stato chiesto chi avesse compiuto l’attentato di Piazza Fontana. Le loro risposte lasciano di stucco per il grado di disinformazione (o di cattiva informazione) che denotano: il 60% incolpava le Brigate Rosse (che, sebbene in seguito avrebbero compiuto azioni efferate, all’epoca ancora non esistevano), il 20% la mafia, il 10% dichiarava di non sapere rispondere, e solo un altro 10% riconosceva giustamente il terrorismo nero come colpevole. L’immenso valore di questo incontro, dunque, sta proprio nell’avere potuto ascoltare la verità dei fatti dalla voce di chi l’ha vissuta e testimoniata in prima persona, per fugare ogni possibile dubbio.
Guido Lorenzon, che grazie al suo senso civico ha compiuto azioni di estremo coraggio e che, scegliendo di non stare in silenzio, ha sconvolto la sua intera esistenza, ci appare come un eroe. Come definire diversamente colui che antepone alla propria vita, il possesso più prezioso di ogni uomo, il bene dello stato, la giustizia e la verità? Se ai nostri occhi è senza dubbio così, forse diversa è la percezione del diretto interessato. “Per Lorenzon e per quelli come lui non è una questione di eroismo” riflette un professore del Franchetti “ma di decenza nei confronti di sé stessi”. Forse. Ma la domanda sorge spontanea: “Avrei fatto lo stesso?”
Le foto presenti in questo articolo sono state pubblicate su gentile concessione di Daniele Ferrazza, autore delle stesse, tutti i diritti sono riservati all’autore.
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