Parole Alate

Senza condimento

Chiara al bagno non rimane più di pochi minuti. Chiude la porta con un giro di chiave; poi raccoglie i capelli biondi in una coda sottile, uno, due, tre giri di elastico. Non stringe mai forte, così può scioglierla in fretta appena ha finito. 

Dallo specchio la separano pochi passi, che compie senza indugi; evita di guardarsi, e non ruota la testa nemmeno dopo, quando esce dalla stanza. Passa oltre e si accovaccia davanti al water. Le ginocchia picchiano sgarbatamente contro le piastrelle bianche. 

Alza la tavoletta con la punta delle dita, si sporge un poco verso la tazza; l’indice e il medio si spostano alle labbra. L’altra mano è stretta a pugno, nella tasca della felpa. 

Le porte si aprono senza opporre resistenza. Nessuna parola magica e nessun guardiano. Al di là una caverna umida, rossastra; un tunnel buio che assomiglia alle montagne russe, alle discese in picchiata aggrappati ai sedili. Ora non occorre provare quel brivido: i polpastrelli arrossati si arrestano subito prima del precipizio, al culmine della tensione. 

Raggiungono il loro obiettivo e battono veloci in ritirata. 

È sufficiente sfiorare l’ugola: ormai Chiara ha imparato quanto spingere in fondo le dita, e ripete quel movimento quasi meccanicamente, senza il senso di disagio delle prime volte. 

Quello che ha ingerito a cena se ne torna fuori altrettanto facilmente; la ceramica del water si tinge di un colore indefinito, puntellato di tinte diverse, e nell’acqua precipitano pietanze ormai disgregate e irriconoscibili. 

Lo sciacquone le cancella senza fare domande. 

Chiara riemerge dal blu delle piastrelle e torna in sala da pranzo. 

I primi dubbi le erano sorti quando era nato quel problema dell’olio. All’inizio non ci aveva dato troppo peso; senza condimento qualsiasi cibo ha poco sapore, è vero, ma i gusti sono gusti. 

Chiara, che non l’aveva aggiunto alle verdure per più di tre pasti di fila, aveva giustificato la scelta accennando una smorfia e sostenendo che da qualche tempo le carote e l’insalata le piacevano di più scondite, o al massimo con un pizzico di sale. 

Poi però si era verificata una mezza crisi, a distanza di due settimane. Maria, sovrappensiero, aveva fatto colare un filo d’olio sui pomodori, ed era bastata una svista simile a scatenare una scenata condita di urla strozzate e lacrimoni sulle guance, per cui quei pomodori innocenti alla fine non li aveva mangiati nessuno: Chiara non ne aveva voluto sapere, e nemmeno lei li aveva toccati, sperando inutilmente di far leva sul mantra se-non-li-mangi-tu-poi-si-buttano. 

Aprendo quell’app sul telefono le torna in mente l’episodio. A prima vista Maria aggrotta la fronte – è un’app utile forse ad atleti professionisti, non certo ad adolescenti inesperte, per cui informazioni tanto fredde e arbitrarie non sono facili da capire. 

I dati sono in apparenza di una chiarezza cristallina: selezionato l’alimento in questione, un certo numero di grammi corrisponde a un certo numero di calorie. Più calorie si accumulano durante il giorno, più alto diventa il rischio di andare oltre il massimo consentito; se vai oltre il massimo consentito, non dimagrisci. Serve disciplina. Meno male che te lo ricordano loro, pensa Maria, gli occhi stretti in una fessura e puntati sul fastidioso cartellino rosso che lampeggia in alto alla schermata. 

Passa in rassegna la lista. Un cucchiaio d’olio d’oliva: 88 chilocalorie. A infierire, a destra della goccia giallognola rappresentativa sullo schermo, un ago che punta verso la scritta Attenzione! Alto apporto calorico. Un pacchetto di crackers: 130 calorie. Chiara quando ne apre uno non ne mangia mai più di metà. 

Il pollice di Maria scorre piano. Esplora la sezione verdure, poi il reparto frutta secca, arriva ai formaggi dopo aver esaminato i salumi, evita i lunghissimi e demoniaci elenchi di caramelle e cioccolatini, e torna stremato ai prodotti da forno. 

Il capo si solleva piano a guardare la tavola da pranzo ancora da sparecchiare, a cui Maria siede da sola, con gli avambracci appoggiati alla tovaglia e le mani strette attorno al cellulare. Riflette e ripercorre i movimenti di sua figlia negli ultimi mesi. 

I tasselli del mosaico accorrono tutti insieme, ansiosi di essere messi al loro posto; il disegno che formano si fa sempre più preciso. Maria deglutisce e spegne lo schermo, riordina le immagini. 

Chiara ha smesso di andare a pranzo con le amiche. A pranzo non si sa cosa mangi, lei è al lavoro e non fa caso a ciò che sparisce dal frigo. Ha tagliato dalla dieta gli spaghetti. Scomparse addirittura le banane, e di zuccheri neanche a parlarne. Adesso Chiara mangia agrumi a volontà e persino l’anguria, che ha sempre giudicato troppo acquosa. Reagisce con stizza se le viene offerto un grissino in attesa del pranzo, e poi non finisce nemmeno il poco che c’è nel piatto. I cioccolatini che le allunga il nonno finiscono silenziosamente in fondo al sacchetto della spazzatura. 

Maria sospira e si sfrega gli occhi. 

Chiara torna a passi leggeri al suo posto, afferra il bicchiere con disinvoltura e ne tracanna il contenuto senza battere ciglio. «Non hai finito gli gnocchi», mormora Maria poco convinta. Lo sguardo di Chiara ricade sul piatto, dove nel sugo sguazzano ancora, effettivamente, una dozzina di gnocchi. Non accenna a prendere la forchetta. La afferra Maria con la destra, mentre la mano sinistra trascina davanti a sé quel che è rimasto della cena. Comincia a separare delicatamente le metà appena formate: bocconi più piccoli vanno giù più facilmente, giusto? 

Sbagliato. Gli gnocchi si sono moltiplicati, e il piatto ora ospita un piccolo e preoccupante esercito di cumuli di farina e patate. 

A Chiara non vanno più.