Civica Mente

La cultura dell’utile e il pensiero critico

di Asia Arnini, 5G

 

Può la scuola garantire davvero lo sviluppo del pensiero critico o la logica dell’utile e l’abitudine all’obbedienza plagiano di fatto le nostre menti? Questo è il dubbio che si pone Asia Arnini di 5G scientifico, dopo un percorso di Educazione Civica orientato a indagare il difficile rapporto tra obbedienza a un’autorità e responsabilità morale, a partire dal caso degli ufficiali tedeschi che ordinarono lo sterminio degli ebrei.

 

 “L’istruzione non è memorizzare che Hitler ha ucciso sei milioni di Ebrei. L’istruzione è capire come sia stato possibile che milioni di tedeschi comuni fossero convinti che fosse necessario farlo. L’istruzione è anche imparare a riconoscere i segni della storia quando si ripete”. Con questa brillante provocazione, Noam Chomsky, filosofo statunitense di origine ebraica,  invita a riconsiderare lo stampo nozionistico dell’istruzione, a riaffermare la necessità della scuola di educare gli studenti a un pensiero critico. 

Il percorso scolastico standard offre innumerevoli occasioni per sviluppare criticamente la propria opinione personale (si pensi a una qualsiasi lezione di letteratura o filosofia), tuttavia spesso mancano i momenti per esprimerla liberamente, senza il condizionamento del voto: i più si adeguano, infatti, all’opinione dell’insegnante per “alzarsi la media”, tristemente l’obiettivo principale di molti studenti della nostra generazione. 

L’ossessione per il risultato, prevedibile nella cultura dell’utile in cui siamo immersi negli anni della formazione, è ciò che davvero nega la possibilità di crearsi una propria opinione: conoscere un argomento profondamente richiede tempo, e non è conciliabile con la mentalità di oggi che porta a cercare un riscontro immediato per ogni sforzo.

Questa mentalità è perfettamente rappresentata ne “Le intermittenze della morte” di Saramago, che pur vertendo su un argomento diverso (la morte, dalla mezzanotte del 31 dicembre, smette di svolgere il suo compito) fa risaltare come la logica dell’utile intacchi tutto ciò che dovrebbe essere guardato in modo reverenziale, evidenzia l’ipocrisia di una società che critica chi viene meno ai valori tradizionali (nel testo per esempio le famiglie che mostrano insofferenza nel prendersi cura di un parente moribondo ma impossibilitato a morire) pur avendo gli stessi atteggiamenti.  

Inoltre, oggi come nel periodo nazista si ha la tendenza a essere conformisti. Le circostanze economiche, sociali e culturali sono radicalmente diverse, ma l’abitudine ad adeguarsi al pensiero di un’autorità, non necessariamente politica, resta diffusa. Siamo così abituati ad obbedire da trasformarlo in un riflesso quasi pavloviano.

L’ipse dixit è, dunque, la scelta più semplice anche nel XXI secolo: toglie responsabilità a colui che cita, che può sempre rifugiarsi nella sicurezza dell’imparzialità. Certamente non si deve demonizzare l’opinione di persone più esperte e autorevoli in un certo ambito, anche per evitare di arrivare al cinismo e alla negazione di qualsiasi forma di autorità (si conoscono bene i danni del negazionismo e delle teorie del complotto!), ma i pareri che vanno accettati sono esclusivamente quelli tecnici, che non possiamo verificare. Tuttavia, non si può nemmeno scegliere sempre la via più semplice, accettare l’opinione più diffusa o rifiutarla per il gusto di essere, a prescindere, anticonformisti. 

In tutto ciò la scuola ha delle responsabilità? Nessun progetto mirato può obbligare a “scegliere” di pensare, ma se anche esistesse un modo per insegnarlo, sarebbe applicato?

Il problema probabilmente non si pone. La scuola offre già gli strumenti per la riflessione e per lo sviluppo del pensiero critico, ma quello che non può insegnare è la volontà di approfondire. Questa è in mano solo all’attitudine personale degli studenti, che possono decidere se sfruttare appieno le opportunità offerte, o accontentarsi di uno studio nozionistico per ottenere risultati “nella media”. 

 

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