Tratto all’omonimo libro di Martin Amis, il 22 febbraio 2024 è uscito “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer, un film come non se ne sono mai visti, che rivoluziona profondamente il nostro modo di pensare.
Di film sulla Shoah ne abbiamo visti molti. E tutti cercano di raccontare una delle più grandi catastrofi umanitarie della storia allo stesso modo: ce la fanno vedere, ce la fanno vivere oltre lo schermo. Il che è triste se ci pensiamo: i registi hanno ricreato un immaginario inimmaginabile, una tragedia del passato tanto devastante che ci è impossibile riviverla allo stesso modo. Questo perché la Shoah è indicibile, per il suo orrore non può essere concepita dalla mente umana. Per quanto possiamo essere informati e vedere, leggere la Shoah, non potremo mai immaginare cosa essa sia realmente stata. I film ci sbattono davanti una realtà che quindi è “filtrata” e si basa sulle testimonianze delle persone che l’hanno vissuta, quelle stesse che sappiamo averci messo anni per raccontare quello che è successo, non solo per il trauma, ma anche perché nessuno sembrava disposto a credere a quelle atrocità. Basta citare la senatrice a vita Liliana Segre, che ha impiegato ben trent’anni a far sentire la propria voce e l’eco della sua memoria, e a portarla nelle scuole per condividerla con le nuove generazioni. Penso che ciò che potrebbe accomunare tutti noi nella visione dei film su questo tema sia la sensazione di nausea e di vuoto emotivo che scene particolarmente violente ed esplicite ci suscitano.
La zona di interesse invece mi ha trasmesso emozioni completamente diverse. Il film mostra la vita perfetta della famiglia del comandante nazista del campo di concentramento di Auschwitz, Rudolph Höss, che vive a pochi metri di distanza, in una villetta dotata di un giardino idilliaco, un paradiso di fiori e di piante, oltre il quale avveniva un genocidio, uno dei più grandi della storia. Un solo muro infatti separava la casa della famiglia Höss dal campo di concentramento di Auschwitz, un confine assai vicino e tangibile, eppure oltre il quale tutto il resto sembrava invisibile ai loro occhi. Quello che avveniva oltre al muro era semplicemente trascurabile poiché non faceva parte della vita perfetta che la famiglia si era costruita dopo anni di duri sacrifici. La moglie di Höss, Hadwing, sembra essere la più legata al luogo dove vive e la più insensibile di tutti. È agghiacciante il modo in cui sceglievano di ignorare l’orrore al di là del muro, a pochi metri dai forni crematori, e il fatto che la loro vita, ogni giorno che passava, si nutriva dei prodotti del campo: la cenere era fondamentale per alimentare il rigoglioso giardino, i vestiti degli ebrei venivano indossati senza pudore e ritegno da parte della famiglia tedesca.
Penso sia inutile commentare l’insensibilità della famiglia Höss: tutti possiamo bene immaginarla, io stessa durante tutto il film sono rimasta come pietrificata davanti allo schermo, attonita di fronte a ogni singola scena. Niente di sconvolgente, in realtà: nessuna scena vede spargimenti di sangue, uccisioni o violenza. Ma l’aspetto più inquietante e agghiacciante di tutti è il suono. Per tutta la durata del film, infatti, Glazer, consapevole di quello che già è stato visto più e più volte da noi spettatori sullo schermo, non fa leva solo sulla percezione visiva, ma si concentra soprattutto sulla componente uditiva. Per questo ci fa sentire i rumori del campo, i cani che abbaiano, i pianti dei bambini, il rumore dei treni che arrivano. Il sonoro diventa tridimensionale, un personaggio a sé, che vince su qualsiasi altra turpe immagine. Ma per la famiglia Höss, abituata alla normalità del male che lei stessa ha generato, tali suoni fanno parte della routine quotidiana, ciò che regola le loro azioni durante il giorno.
Per questo Glazer fa palesemente riferimento al concetto di “banalità del male” di Hannah Arendt: la mancata assunzione di responsabilità da parte dei nazisti di fronte alle atrocità imperdonabili da loro commesse con lo scopo di far avanzare la loro carriera, è ciò che li rende davvero “banali”. Paragonabili a dei robot telecomandati o a delle bambole di pezza, hanno generato il male in veste di “semplici esecutori”. Quello di Glazer è un monito e un’accusa allo stesso tempo: la stessa banalità dei nazisti può essere la nostra oggi, e credere che un disastro tale non possa ripresentarsi in futuro è ciò che ci rende maggiormente inconsapevoli ed è la mentalità più pericolosa di tutte. Ciò che spaventa Glazer e che gli ha suggerito di girare un film così diverso dagli altri, non sta solamente nel temere una “seconda Shoah”, ma soprattutto e quasi esclusivamente nella crisi dei valori di memoria, sensibilità e umanità che caratterizzano gli esseri umani in quanto tali. Il film ci vuole mostrare che i nazisti erano persone assolutamente “normali”, seppure nella loro smisurata disumanità: avevano una casa e si prendevano cura del loro giardino, non erano pazzi né dei mostri. Questa sarebbe stata una consolazione e una giustificazione che la nostra società avrebbe potuto dare al genocidio ebraico, ma purtroppo non è stato così. Erano semplicemente persone che vivevano al di là di un muro, e per passare dall’altro lato indossavano degli occhiali oscurati in grado di renderli umanamente ciechi e di spegnere la loro emotività, in quanto meri esecutori degli ordini del Führer.
I turisti che oggi visitano Auschwitz e si fanno i selfie davanti ai forni crematori e le camere a gas sono indifferenti: la storia non ha insegnato loro niente. Il famoso binario 21 della stazione di Milano, su cui c’è scritto a caratteri cubitali la parola INDIFFERENZA e di cui a lungo ha parlato Liliana Segre, è diventato il simbolo della consolatoria inconsapevolezza nei confronti di altri esseri umani.
Vi lascio dunque alla visione del film, se non l’avete già fatto, senza anticiparvi il finale, che personalmente ho trovato geniale nella sua originalità. E voi come l’avete interpretato?
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